Finalmente le elezioni: l’ultimo giorno del tempo delle promesse. A Livorno la chimera dell’azionariato popolare
TMW/TuttoC.com
È passato un anno dalla prima gara rinviata per l’esplosione della pandemia. Piacenza-Sambenedettese, 22 febbraio 2020. La prima partita di calcio professionistico rinviata in Italia, in Europa. Rinviata la sera del 21, tra i dubbi e qualche parolaccia di chi non vedeva un pericolo concreto ma soltanto una gran rottura di scatole. Aveva torto, ma non poteva saperlo. Non potevamo saperlo. È calcio, ma è anche vita: quella partita segnò una sorta di spartiacque. Mi fece pensare: allora è una roba seria. Se si ferma il pallone è una cosa preoccupante, non un nemico invisibile e innocuo. L’abbiamo visto benissimo. Che cosa si è fatto in un anno? Sono tempi difficili per tutti, ma la risposta è troppo poco. Si naviga a vista, oggi come oggi: pure nel pallone, sono arrivati tanti tamponi (in tutti i sensi) e poche soluzioni strutturali. Ora c’è il governo dei migliori, manca il Ministero dello Sport: visti i precedenti, e non parlo solo di Spadafora, è davvero un torto fatto allo sport?
Andiamo oltre il ricordo, ché oggi va in scena il futuro. Tra poche ore Gabriele Gravina sarà rieletto presidente della Federcalcio: zero dubbi. Qualche veleno, se è vero che buona parte del dibattito attorno alla contesa elettorale ha riguardato un accordo con lo sfidante Cosimo Sibilia di due anni fa. Ma non ci si poteva fare una fotocopia? Seconda domanda: è davvero un tema che abbia una qualche rilevanza per presidenti che faticano a tirare avanti e calciatori che non arrivano a fine mese? Perché di questo si sta parlando. Oggi sarà anche l’ultimo giorno del tempo delle promesse. Ho faticato parecchio, come molti immagino, nel leggere i programmi elettorali, sia di Gravina che di Sibilia. Pomposi e voluminosi. Più il primo, va detto, ma più o meno il contenuto è lo stesso: promesse e buoni propositi. Tutto normale, tutto fisiologico: le promesse fanno parte di qualsiasi competizione elettorale, così come gli accordi ed eventualmente anche i tradimenti. È la politica, baby. L’impressione è che Gravina e Sibilia contendano una posizione di potere quando avrebbero potuto collaborare e formare un tandem molto più efficace per le sfide che il vincitore dovrà comunque affrontare. Il tempo delle promesse, comunque, non scandalizza nessuno, ma da domani finisce e servirà estrema concretezza.
In settimana è stato presentato il piano strategico della Lega Pro. Ambizioso data la situazione. E, va detto, pomposo anche quello, sebbene presenti qualche contenuto più concreto. Da tutti, in generale, ci si aspetta che, scavallato l’election day, si passi a parlare delle riforme sempre ventilate e non sempre realizzate. Il primo punto? Ridiscutere l’impianto e il perimetro del professionismo: se ne parla da molto prima rispetto all’arrivo della pandemia, quest’ultima ha solo accelerato una crisi già in atto. Le proposte? Per la terza serie, ho già scritto in passato di quanto ritenga necessario tornare alla divisione tra C1 e C2. Che vuol dire semiprofessionismo. Serve un qualche cuscinetto con il mare magnum del dilettantismo. Serve ridiscutere la legge Melandri, e far capire che il decreto dignità ha soltanto tagliato le gambe a un intero settore produttivo mentre la ludopatia è una cosa seria che si combatte con serietà. Serve capire cosa si intende per sostenibilità, intervenire sulle seconde squadre perché così sono una barzelletta, dare credibilità economica al pallone, superare l’idea che chi possiede una società di calcio debba essere un filantropo e chi vuole costruire uno stadio lo debba fare pro bono. C’è una miriade di cose concrete da fare e un sacco di sfide che non possiamo perdere. Per fortuna oggi finisce il tempo delle promesse per iniziare quello delle azioni. Il primo è comprensibile, il secondo è necessario.
In settimana, è nato a Livorno un progetto di azionariato popolare che mira a risollevare le sorti della squadra in una stagione fatta purtroppo più di fideiussioni che di punti. Spinelli, cioè l’unico ad averci messo davvero faccia e soldi finora, s’è detto scettico ma disponibile ad aiutare. Su queste pagine, l’ottimo e ottimista Tommaso Maschio ha scritto che un altro calcio è possibile. Me lo auguro, ma ci credo poco. Intendiamoci: non alla buona volontà dei soci e dei tifosi che peraltro non sono neanche degli sprovveduti ma ci stanno lavorando seriamente. Di azionariato popolare, in Italia, si è parlato spesso e volentieri, ma gli esperimenti soddisfacenti latitano. Nel migliore dei casi (Roma, Pordenone) è stato un supporto alla proprietà, ma i numerosi tentativi di importare un modello che altrove esiste sono quasi sempre naufragati. Può essere una stampella, appunto, è molto difficile che garantisca solidità nel lungo periodo. All’estero funziona? Più o meno. Funziona (ma è in discussione) in Germania, dove però è previsto a livello regolamentare e quindi anche il gruppo industriale più ricco deve farci i conti. In Spagna più o meno: funziona per le grandi squadre, aiutate anche dall’essere considerate enti senza fine di lucro. Di fatto, però, i club sono in mano alle banche che foraggiano i candidati presidenti e devono prestare adeguate garanzie. Infatti i club hanno debiti molto alti. In Inghilterra, per completare il quadro, si torna al modello della stampella: trust e associazioni di tifoso a supporto della proprietà, ma poco altro. Quello che più o meno funziona anche in Italia, e che difficilmente basterebbe da solo a cambiare il destino di qualche società, soprattutto nel lungo periodo. Sarebbe una bellissima filosofia, temo sia più che altro una chimera. Spero ovviamente di essere smentito.
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IL PUNTO di Valeria Debbia
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