REGGIANA E JUVE STABIA: LA SERIE C PERDE PEZZI. STORIE DI UN CALCIO CHE RISCHIA DI NON ESSERCI PIÙ

Nasce a Bari il 23.02.1988 e di lì in poi vaga. Laurea in giurisprudenza, titolo di avvocato e dottorato di ricerca: tutto nel cassetto, per scrivere di calcio. Su TuttoMercatoWeb.com
13.06.2018 01:00 di Ivan Cardia   vedi letture
REGGIANA E JUVE STABIA: LA SERIE C PERDE PEZZI. STORIE DI UN CALCIO CHE RISCHIA DI NON ESSERCI PIÙ
TMW/TuttoC.com

È un po’ lo specchio dell’Italia, la Serie C. Andiamo avanti più per amore che per ragione. L’arte di arrangiarsi applicata al calcio: un colpo al cerchio e uno alla botte, volemose bene e i conti alla fine tornano. Più o meno. Col calcio non si guadagna, dicono quelli che ne sanno. È diverso: col calcio si perde, a questi livelli. In Serie C fare calcio è un misto di mecenatismo, imprenditoria scriteriata, capacità di aggiustare i bilanci. Non si sta parlando di illegalità, sia chiaro. Ma di tirare la cinghia anche quando si è rotta da un pezzo. E alla fine i conti non tornano.

Sono di ieri le dichiarazioni di Mike Piazza e Franco Manniello. Il primo vende la Reggiana, non si sa bene a chi. Il secondo fa un passo indietro: non può garantire l’iscrizione della Juve Stabia al prossimo campionato. Sono due casi diversi: a Reggio Emilia si sperimenta da inizio stagione una decrescita, in termini di investimenti. Poteva essere felice, senza i controversi episodi di Siena. A Castellammare di Stabia si è inseguito lo stesso sogno per un paio di stagioni, oltre ogni razionalità. Più col cuore che con la testa, appunto. 

Da un po’ di tempo si parla tanto, forse troppo, delle seconde squadre. Molto meno di chi già c’è e forse non rimarrà. Reggiana e Juve Stabia, il cui futuro è comunque tutto da scrivere, sono le ultime (o le prime) due di una lista che rischia di essere lunga più di quanto avremmo previsto. Ci sono società col cartello vendesi affisso da un pezzo, e nessuno che va a visitarle per comprare. Ci sono società che hanno rimediato penalizzazioni record nell’ultimo campionato, e non è chiaro cosa succederà. C’è chi è entrato in politica, ha perso e ha cambiato idea sui propri investimenti. C’è chi, in modo molto più semplice, non ce la fa. 

La Serie C non è solo fallimenti e penalizzazioni, no. Ci sono i playoff, e ne parleremo tra poco. Ma è anche storie di un calcio che non si sa se potremo viver così ancora a lungo. Delle seconde squadre abbiamo parlato già tante volte. Per ora sono soltanto un pastrocchio: non concordate, non volute, non presenti. L’unica grande società italiana che dà certezze in questo senso è la Juventus. Dalle altre, per ora, un vorrei ma non so se posso o un potrei ma non so se voglio. Versione bonus: non posso e non voglio, che comunque è netta maggioranza. Sampdoria e Lazio pensano all’acquisto di una squadra in Serie C, con trattative più o meno avanzate. Non pagherebbero il miliardo e rotti che serve per l’iscrizione della seconda squadra, incasserebbero i contributi per le società di Lega Pro. Tutto molto bello. È la solidarietà, di persone e di sistema, che manca. Non è una novità, vista la situazione generale del Paese. Ma si parla di tante piccole riforme, che non ne fanno una buona. Ormai tutto sulle seconde squadre, quando fino a pochi mesi fa il problema sembravano i 60 club di Serie C. Che non si sa se saranno 60. Non si parla più di riduzione dell’organico, il semi-professionismo è finito in cantina. Siamo volubili. Un po’ troppo per gestire un business. 

Il calcio, in Serie C, non segue una logica di impresa. Almeno, non quella di un’impresa che produca degli utili. Dà visibilità, dà contatti, ma alla lunga chi tenta il salto in alto e fallisce si trova le ali sciolte. La Serie B è già un mondo a parte, pur con tutte le difficoltà del caso. In basso si continua a soffrire, e il 14 novembre non ha cambiato nulla di tutto ciò. La riforma delle seconde squadre, per chiudere il discorso sul tema, è bellissima ma scritta coi piedi. Come se dovessero giocare su Marte. Invece non siamo su Marte, e ha ragione chi dice che non siamo la Spagna. Siamo il Paese dei campanili, siamo un Paese che ama scommettere sul proprio futuro, poi di solito perde ma comunque se ne frega e raddoppia la posta. Reggiana, Juve Stabia, ma anche Trapani, Siracusa, Matera, Paganese, Cuneo, Pro Piacenza, Bassano. Ne dimentico qualcuna. Sono tutte storie diverse, ognuna con un vissuto che è diverso e un epilogo che sarà diverso. Ma mi chiedo quanti presidenti si siano identificati nelle parole di Manniello. Il calcio come passione, ma anche il calcio dei mille sprechi. Da soli non ce la si fa, ma gli errori sono un po’ ovunque. Dal basso e dall’alto. Dal calcio di Mecenate, che non guadagnava ma offriva arte. E dal calcio dei grandi, che guarderà triste Russia 2018 senza l’Italia, ma cambia tutto perché non cambi nulla. 

Chiosa sui playoff, era promessa. Anche se Tomasi di Lampedusa se la sarebbe meritata, perché ci ha raccontati come pochi altri. Alla fine vince Gravina, sul tema. Alla formula dei playoff super allargati non ho lesinato critiche, e alcune cose penso che si possano comunque migliorare. Ma i vantaggi erano superiori, e lo stanno dimostrando. Il passaggio del Cosenza è il miglior spot per la formula a 28 squadre: dal quinto posto a Pescara, che sogno. Non costruito sul nulla, ma sulla programmazione, sulla capacità di capire che si parla di due competizioni del tutto diverse. C’è un po’ di fortuna? C’è anche un po’ di fortuna, ma dove saremmo senza quella. Viva i playoff, quindi. E viva i 20mila del Massimino, i 20mila del Marulla. Sono loro il patrimonio del nostro calcio. Dovremmo tenerceli più stretti.